Il mio bastone e il mio vincastro
Il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche
che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il
loro bottino
“C’è (nel Salmo 23) la parola concernente la
“valle oscura” attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno
di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può
accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura
della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. “Se scendo negli
inferi, eccoti”, dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente
anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale
può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della
valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione,
dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare.
Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle
oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano
spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo
essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché
possiamo mostrare loro la tua luce.
“Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno "sicurezza”: il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che
vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro
bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad
attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano nel ministero della
Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone
del pastore, il bastone con il quale protegge la fede contro i falsificatori,
contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del
bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di
amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come
pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento
e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede.
Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo
scappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo
diventare vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter
camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.
Alla fine del Salmo si parla della mensa
preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del
poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime
innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel
tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di
Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo
Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza
ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire,
un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci
ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito
che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete
dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti
alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del
fatto che Egli ci ha comandato: “Fate questo in memoria di me”? Lieti perché
Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il
suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa
presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo:
“Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita” (23 (22),
6).
Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due
canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua
liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il
racconto della crocifissione di Gesù: “Un soldato gli trafisse il costato con
la lancia. Esso viene aperto, e diventa sorgente: l’acqua e il sangue che
ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il
Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo
cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la
Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto,
Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede
sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù
stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce
un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.
La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede,
però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta
dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me: Beva chi
crede in me. La Scrittura dice: “Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva” (Gv 7,37).
Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il
credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della
storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande
donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di
fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da
Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua
della vita in un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto
il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei
diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua
fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo
nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero
sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo
che sono assetati e in ricerca” (Benedetto XVI, Omelia in occasione
della conclusione dell’Anno Sacerdotale, 11 giugno 2010).
L’affermazione che la Chiesa con il suo ministero pastorale è
abilitata all’annuncio e non all’insegnamento della teologia scientifica è
certamente corretta. Ma il ministero dell’annuncio si impone anche per la
teologia. I teologi del XX secolo presero in mano la situazione tenendo in
pugno il “rinnovamento” della Chiesa, vanificando l’autorità del ministero
pastorale. Così scrive nella sua autobiografia La mia vita (pp.
100-101) Joseph Ratzinger: “La parte che i teologi avevano assunto al
Concilio creò tra gli studiosi una nuova consapevolezza: essi cominciarono a
sentirsi come i veri rappresentanti della scienza e, proprio per questo, non
potevano più apparire sottoposti ai Vecsovi. Difatti, come avrebbero
potuto i Vescovi esercitare la loro autorità magisteriale sui
teologi, dal momento che derivavano le loro prese di posizione dai pareri degli
specialisti e dipendevano dagli indirizzi loro offerti dagli studiosi?A suo
tempo Lutero aveva sostituito l’abito sacerdotale con quello dello studioso,
per mostrare che nella Chiesa gli esperti di Sacra Scrittura sono coloro che
veramente possono prendere delle decisioni; poi questo rivolgimento era stato
in qualche modo attenuato dal fatto che la professione di fede era ritenuta
comunque come ultimo criterio di giudizio. Il Credo era dunque criterio ultimo
anche per la scienza. Ma ora nella Chiesa cattolica, quanto meno a livello
della sua opinione pubblica, tutto appariva oggetto di revisione, e persino la
professione di fede non appariva più intangibile, ma soggetta
alle veriiche dgeli studiosi”
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