Il grande inganno del federalismo

di Pierfranco Pellizzetti, il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2010

Discutere di Federalismo mantiene ancora una qualche - minima - attinenza con la realtà o trattasi soltanto di prestidigitazione, illusionismo politico? Una mastodontica opera di simulazione, secondo la preclara ricetta sperimentata e promossa a livello mondiale con la clamorosa bufala delle “armi di distruzione di massa di Saddam” che non c’erano.

Vicenda kafkiana, portata di recente sugli schermi dal film Green Zone di Paul Greengrass, in cui una squadra guidata dall’ufficiale dell’esercito USA Roy Miller (Matt Damon) viene sguinzagliata per tutta Bagdad occupata da Enduring Freedom, nell’inutile ricerca di strumenti di morte terribili e strombazzati quanto inesistenti; visto che gli scopi sono ben altri: coprire la sanguinosa macchinazione per trasformare l’Iraq in uno stato fantoccio.
Il gioco è - tutto sommato - abbastanza semplice: creare un tormentone in cui le parole perdono il loro significato intrinseco trasformandosi in un concentrato di emotività, all’ombra del quale perseguire scopi inconfessabili.

Eccoci così tutti “federalisti”. Il termine, fatto ingurgitare a Umberto Bossi da quel geniale mattocchio del professor Gianfranco Miglio nella fase aurorale della Lega, è ormai diventato oggetto di una acritica celebrazione.
Intanto se ne è persa per strada la veneranda sostanza. Sia nella versione kantiana di “Stati Uniti del mondo”, al servizio della “Pace perpetua”, sia in quella dei Padri Fondatori della Repubblica americana (da Alexander Hamilton a James Madison) di una divisione del potere sovrano su base territoriale per “ampliare la sfera del governo popolare”.

Mantenendo chiaro in entrambe le formulazioni che – come illustra il Dizionario di Politica curato da Norberto Bobbio e Nicola Matteucci (UTET 1976) – “il principio costituzionale sul quale si fonda lo Stato federale è la pluralità di centri di potere sovrani coordinati tra loro, in modo tale che al governo federale, competente per l’intero territorio della federazione, sia conferita una quantità minima di poteri indispensabili a garantire l’unità politica ed economica, e agli Stati federali, competenti ciascuno per il proprio territorio, siano assegnati i poteri residui” (pag. 392).
Nobili intenti, ispiratori dei nostri antichi federalisti europei: gli Altiero Spinelli e gli Ernesto Rossi, che nel confino fascista stendevano la Carta di Ventotene.

È riscontrabile una pur minima traccia di questa grandezza d’animo nel pastrocchio con contorno di polenta taragna che ora ci viene ammannito sotto l’etichetta di Federalismo?
Il sequel o il prequel caserecci di Green Zone.
Al di là del chiacchiericcio mistificatorio, nient’altro che l’ennesima declinazione della parola d’ordine chiave di inizio secolo: concorrere al grande saccheggio del patrimonio nazionale come privatizzazione spartitoria dei beni collettivi.

Sono sotto gli occhi di chi vuol vedere le mire in materia perseguite dai gruppi economico-finanziari; in parte andate a buon fine, in parte non ancora: dall’Alitalia al sistema autostradale, dalla scuola di Stato (presidio repubblicano della cittadinanza) all’Acquedotto Pugliese (il motivo vero dell’ostilità di UDC nei confronti del Governatore Vendola contrario alla cessione).

Più sottotraccia – invece – la spartizione in ambito istituzionale, ma non per questo meno inquietante. Avvolta nelle fumisterie efficientistiche da parte dei cosiddetti liberisti, in quelle favolistico-identitarie nel caso dei leghisti. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: chiamasi saccheggio del pubblico, attraverso la dilatazione degli organigrammi amministrativi intermedi o la conquista manu militari di enti territoriali.

Il tutto raccontato come promozione dei territori; l’ampliamento della sfera di governo popolare propugnato da Hamilton con ben altri intenti.
Ma ciò non si riduce soltanto a una dissipazione di risorse; fa di peggio: orienta le scelte politiche in una direzione totalmente sbagliata. Ossia la definizione dei perimetri territoriali secondo criteri a dir poco sgangherati, certamente retrogradi, di un comunitarismo ottuso e puramente difensivo: le “piccole patrie” tra il dialettale e l’etnico. Quando in Europa il ridisegno progettuale dello spazio segue modalità ben diverse, in base ai principi del neoregionalismo economico: complementarità e partnership tra specializzazioni interdipendenti delle varie aree coalizzate.

Tra l’altro, la ragione per cui nel Settentrione d’Italia non si riesce a creare la macroregione logistica integrata, perdendo tempo a inseguire i vaneggiamenti sulle Padanie.
Segno evidente di un Paese che ripiega su se stesso, si arrocca. Mentre le fameliche bande dei sedicenti federalisti si assiepano attorno alla tavola imbandita.
Tempo fa, ad Annozero, il ministro Giulio Tremonti, nella sua qualità di ideologo ufficiale della Lega, affermava – parafrasando nientepopodimenoche don Benedetto Croce – “come possiamo non dirci federalisti?”.
E allora: federalismo? No grazie! Almeno quello con contorno di polenta taragna.

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